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  • Immagine del redattoreGloria Ferrari

La violenza sulle donne non è colpa delle donne

Succede che in un certo periodo, nel nord-ovest di Londra, si verificano aggressioni sessuali ai danni delle donne in maniera più frequente del solito. Alle abitanti della zona viene caldamente consigliato di non indossare cuffie, in quel tratto di strada, o di non distrarsi con il cellulare. A queste raccomandazioni se ne aggiungono altre. Camminate in strade sempre sufficientemente illuminate, comunicate a qualcuno il percorso che intendete fare per tornare a casa (e quanto tempo si pensa di impiegare) e guardatevi spesso attorno. In pratica, camminare con la musica ad alto volume, mandare un sms o prendere una scorciatoia per arrivare prima a casa contribuisce, in qualche modo, ad incrementare la colpa della vittima. Eppure, "Le cuffie non violentano le donne, né le gonne, le strade buie, i club, l'alcol, le feste, i pigiama party o le uniformi scolastiche. Dai un nome agli autori. Dai un nome al problema. Non possiamo aiutare se non possiamo nemmeno nominarlo", dice l’esperta Jessica Heaton alla BBC.




Sarebbe più corretto ammettere che consigli del genere non dovrebbero esistere in un mondo giusto e che se invece una donna se li sente ripetere per tutta la vita, il problema non è lei.


Non è forse ingiusto chiederle di cambiare il proprio comportamento?


A meno che non si cominci a farlo con tutti e per ogni violenza o avvenimento tragico. Anche, ad esempio, quando una nazione viene scossa da un attacco terroristico. Invece, in questo caso, quello che i media, lo Stato e la polizia chiedono ai cittadini è di non cambiare le proprie abitudini, perché mutarle sarebbe u po’ come dargliela vinta. Alle donne si chiede di cambiare atteggiamento. Di vestirsi in maniera meno provocante, magari, di evitare di tornare a casa da sole da una festa, e una serie di divieti che si somigliano tutti.


Ogni volta che qualcuno si interroga automaticamente su ciò che una vittima avrebbe potuto o dovuto fare di diverso per evitare una determinata situazione\violenza, diventa partecipe e alimenta la cultura della colpa della vittima. Partendo da eventi relativamente banali, fino ad arrivare a situazioni molto più complesse, questo sistema ingloba realtà di tutti i tipi. Facciamo un esempio. Decido di lasciare lo zaino in auto mentre vado a fare la spesa. Ahimè, al mio ritorno il vetro del finestrino è stato ridotto in mille pezzi e lo zaino è sparito. Quante possibilità ho di sentirmi dire “Te la sei cercata, lo sanno tutti che non si lasciano oggetti di valore in auto”? Moltissime.

E tutte quante mi faranno sentire tremendamente in colpa.



Catapultiamo un ragionamento di questo tipo ai casi di stupro, aggressione, violenza, in qualsiasi situazione essi avvengano. Succede che quando si parla di femminicidio, di violenza sessuale, di violenza psicologica nei confronti di una donna,” lei” è la parola più utilizzata. Lei non doveva frequentare certa gente. Lei aveva bevuto troppo quella sera. Lei aveva una gonna vertiginosamente corta, lei lo tradiva, lei aveva minacciato di lasciarlo. Lei non doveva lasciare lo zaino in auto.


Perché tendiamo a crocifiggere la vittima, scordandoci quasi del carnefice?


C’è una prima possibile motivazione. Ritenere le vittime responsabili della loro disgrazia è in parte un modo per evitare di ammettere che qualcosa di altrettanto impensabile potrebbe accaderti. “Nella mia esperienza, avendo lavorato con molte vittime e persone intorno a loro, le persone incolpano le vittime in modo che possano continuare a sentirsi al sicuro", spiega Barbara Gilin, professoressa di servizi sociali alla Widener University, all’Atlantic. Secondo lei, le persone pensano che se il figlio del vicino è stato aggredito ci sarà un motivo, e ci sarà un motivo se non è accaduto a loro, invece. Senza dubbio l’altro genitore deve aver fatto qualcosa di sbagliato. Gilin osserva inoltre che le persone hanno maggiori probabilità di compatire la vittima se in qualche modo la conoscono (amica di famiglia, conoscente del figlio...) mentre al contrario apprendere dai giornali, ad esempio, episodi di violenza, può far aumentare la tendenza a incolpare le vittime. In particolare questo accade, secondo una ricerca, quando la notizia si concentra sulla vittima (si fa spesso cenno alla sua vita, al perché era a quella festa, ad esempio), tralasciando quasi del tutto informazioni sull’aggressore che rimane, appunto, un aggressore qualunque, di cui non si ricorda neppure il nome. Di conseguenza, le storie che invece includono e raccontano del carnefice hanno più possibilità di provocare una reazione contraria.



A tutto questo si aggiunge che spesso chi subisce violenza dubita di ottenere giustizia. Il rischio è di diventare doppiamente vittima delle forze di polizia, della famiglia, della scuola perché non credute, ad esempio. Anche per questo tante donne scelgono di tacere. Soprattutto perché i tipi di violenza non sono sempre dimostrabili con un livido. C’è quella psicologica, c’è quella economica, e ce ne sono così tante altre invisibili che non sarebbe così assurdo se ognuna di noi, durante tutta la nostra vita, diventasse una di quelle donne su tre che la subisce.


Secondo l’Istat, già il 31,5% delle donne in età compresa fra i 16 e i 70 anni subisce violenza fisica e il 5,4% è vittima di stupro. E stiamo parlando, appunto, “solo” di quella fisica.

Purtroppo sule resto delle violenze non evidentemente fisiche i dati potrebbero rispecchiare meno la realtà dei fatti perché molte vittime non si rendono conto di esserlo. L'ISTAT dice che in Italia solo il 35,4% di chi subisce violenza da parte del proprio partner ritiene di aver subito un reato, mentre la restante pensa si tratti di cose che succedono in una coppia. Parlando ancora di dati, e insistendo sul fatto che la violenza ha migliaia di volti, il 41% delle ragazze intervistate ha dichiarato di essersi sentita umiliata, in quanto donna, da contenuti postati dai propri contatti (a volte anche dagli amici) sui social.



Tutto questo accade mentre su un articolo di Repubblica dello scorso anno si legge che quasi 1 cittadino su 4 (per la maggior parte uomini, ma anche donne) pensa che la causa della violenza sessuale sulle donne avvenga per il loro modo di vestire e che il il 39% della popolazione italiana è convinta che sia possibile sfuggire ad un rapporto sessuale, se davvero non lo si vuole. Ciliegina sulla torta, il 15% pensa che una donna che subisce violenza sessuale dopo aver assunto droghe o alcool sia almeno in parte responsabile.


Non si può giustificare la violenza in questo modo. Non si può parlare di gelosia, del raptus del momento, del vestito provocante. Si deve invece parlare di patriarcato, della donna oggetto, del potere che l’uomo crede di avere sulla moglie, sulla fidanzata e su qualsiasi donna incontri per strada.


Questo significa che possiamo dire con certezza che tutti gli uomini sono violenti o stalker? No. Che non ci sono casi in cui sono le donne a maltrattare gli uomini? No.


Ma le percentuali parlano chiaro, come quella del 2018, anno in cui il 92% delle violenze sessuali, il 76% delle denunce per stalking e l’81% di quelle per maltrattamenti in famiglia sono state fatte da donne (dati Eures) e che per quanto dice la Polizia solo nel mese di marzo 2019 ogni 15 minuti una donna ha subito una violenza.



Sarà che alla fine di tutto la spiegazione sta in quello che dice la scrittrice Margaret Atwood:


Gli uomini hanno paura che le donne ridano di loro. Le donne hanno paura che gli uomini le uccidano

 

Immagini Unsplash\Pixabay

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