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  • Immagine del redattoreGloria Ferrari

Perché i Benetton non devono avere il nuovo ponte di Genova

Dopo il crollo del 2018 il nuovo ponte Morandi, a Genova, sembra pronto a tornare operativo. Non c’è ancora una data di inaugurazione, anche se indicativamente prevista nel mese di agosto. Se fino a qui sembra filare tutto liscio, è solo in apparenza. Negli ultimi giorni si sta discutendo sulla possibile revoca della concessione per la gestione di gran parte della rete autostradale italiana ad Aspi, Autostrade per l’Italia. Tradotto, non si sa a chi affidare il nuovo ponte, non ancora in funzione eppure già (o ancora) motivo di disaccordi politici. Se le cose dovessero rimanere come erano, la gestione continuerebbe ad essere a carico di Aspi, contro cui molti si sono scagliati già dopo il crollo del ponte.



Aspi è la stessa società che ha come azionista di riferimento i Benetton e a cui le famiglie delle vittime vorrebbero togliere la gestione del nuovo ponte. Ma, nonostante siano passati più di due anni dal crollo e dall’avvio delle trattative per la revoca dell’incarico ad Aspi (e la conseguente ricerca di una nuova società affidataria), siamo ancora punto e a capo.

Negli ultimi giorni, Di Maio ha espresso con forza il suo pensiero in diverse interviste: “Alle famiglie delle vittime avevamo promesso due cose: che il ponte non lo avrebbero costruito i Benetton, ma un'azienda di Stato. E che i Benetton non avrebbero più gestito le autostrade. Tanto meno il ponte”. D’accordo con lui il viceministro dell'interno Vito Crimi: “Questi irresponsabili devono ancora rendere conto di quanto è successo e non dovrebbero più gestire le autostrade italiane”. In una lunga lettera, Benetton ha chiesto di non accostare il nome della sua famiglia al crollo perché “nessun componente Benetton ha mai gestito Autostrade”, cioè nessuno di loro è mai stato un dirigente, per intenderci.



La Benetton di cui si è parlato fino ad ora è la stessa multinazionale di origine italiana che produce maglioncini e indumenti colorati. La famiglia conta un capitale composto da 55 società, 40 delle quali con sede all'estero e qualche scheletro nell’armadio. Di loro non si parla molto. I giornali evitano di sbatterli in prima pagina quando si tratta di notizie scomode. Forse perché la loro è una delle famiglie più influenti nel panorama italiano (e non)? Ma è bene andare a fondo alle faccende che li riguardano, prima di farsi un'idea.

Ad esempio, non tutti sanno che Benetton ha intentato un processo (che si è concluso il 16 aprile 2003) contro Riccardo Orizio, giornalista del "Corriere della Sera" che nell'ottobre 1998 aveva reso pubblici dei documenti che testimoniavano la presenza di lavoro minorile alla Bermuda e alla Gorkem Spor Giyim, due fabbriche turche che producevano abbigliamento per conto dei Benetton.

L’azienda è stata spesso accusata di sfruttamento nei confronti dei lavoratori, soprattutto quelli stranieri. Processi di questo tipo non sono sempre evidenti, dal momento che possono avvenire in maniera indiretta. Ad esempio, far dipendere parte dei suoi prodotti da terzisti localizzati in paesi come la Cina, dove spesso i diritti dei lavoratori sono praticamente inesistenti, equivale a sfruttarli in prima persona. Per i Benetton è stato impossibile negare la vicinanza alle aziende turche, dal momento che lo stesso imprenditore della Bermuda aveva dichiarato all’epoca: “I rapporti tra noi e l’azienda italiana sono amichevoli e di intensa collaborazione. Loro sono i miei principali clienti”.



Per il Tribunale “L’utilizzo, nelle aziende subfornitrici del licenziatario turco di Benetton, di lavoratori-bambini risultata sostanzialmente provata “. Insomma, una condanna di qualunque tipo nei confronti dei Benetton si pensava fosse praticamente scontata. Invece, ad essere condannato è stato il giornalista Orizio, che ha dovuto pagare 800 euro di multa. Per quale motivo? Secondo l’accusa avrebbe sbagliato nell’affermare in maniera categorica che “in una di queste aziende venissero prodotti capi con il marchio made in Italy per conto dell’azienda italiana “. Dello sfruttamento minorile nessuna traccia.


Proseguendo nella storia dell’azienda Benetton, quello del ponte Morandi non è stato l’unico crollo. Nella periferia di Dhaka, in Bangladesh, nell’aprile 2013 è venuto giù un palazzo di otto piani, che ha causato la morte di più di 381 operai. Cosa c’entra Benetton? Quell’edificio era adibito alla produzione di capi per conto di multinazionali, tra cui la loro. Si è scoperto poi che gli operai lavoravano in condizioni di scarsa igiene e con quasi la totale assenza delle principali norme di sicurezza. Impossibile che nessuno ne fosse a conoscenza o che Benetton non sapesse dove e come venissero prodotti i suoi capi. Infatti, proprio poco dopo la tragedia, tra le macerie è stata fotografata una camicia di colore scuro, sommersa di polvere. L’etichetta riportava la scritta “United Colors of Benetton”.



In quella circostanza i Benetton, per rimediare al “danno”, avevano previsto un risarcimento per le famiglie delle vittime, di circa 970 dollari per morto. Si poteva fare di più dal momento che il gruppo, in quello stesso anno, aveva registrato un utile di esercizio pari a 121 milioni di euro. D’altronde, dall’indagine “Wearing thin: the state of pay in the fashion industry, 2000-2001”, condotta dall’organizzazione inglese Labour Behind the Label, Benetton risulta essere una delle aziende meno attente al problema dei livelli retributivi nei paesi di delocalizzazione. Figuriamoci se si tratta di risarcimento.

Ancora un caso di sfruttamento e sopraffazione. Nel 1991 la famiglia Benetton ha acquistato per 50 milioni di dollari (una cifra irrisoria) 900.000 ettari di terre dalla compagnia Tierras De Sur Argentino, principale proprietaria della Patagonia argentina. Una superficie che corrisponde a 40 volte la città di Buenos Aires, per intenderci. Una volta acquisite le terre, la Benetton ha letteralmente obbligato i Mapuche, la popolazione residente, a spostarsi altrove, per allevare in quei luoghi capi di bestiame per la produzione della lana indispensabile per le produzioni di maglioni, ad esempio.



I Mapuche non si sono arresi facilmente. Hanno provato a ripopolare una parte delle loro vecchie terre, fino all’arrivo della gendarmeria argentina che con metodi probabilmente non troppo pacifici ha cercato di sedare la rivolta. La Amnesty International Argentina ed altre associazioni hanno denunciato con l’ennesima violazione dei diritti umani.


Nel 2002, poi, uno degli ultimi episodi, riguarda la famiglia Curinanco che, ridotta alla fame, con il consenso dell’autorità pubblica, è tornata ad occupare il terreno sottrattogli dai Benetton. L’azienda è riuscita ad ottenere lo sgombero immediato ed una condanna, nel 2004, nei confronti della famiglia. Tuttavia la vicenda ha attirato l’attenzione dei media grazie ai quali anche Adolfo Pérez Esquivel, premio Nobel per la pace, venuto a conoscenza della storia dei Curinanco, ha scritto a Benetton per chiedere la restituzione di alcune terre. Benetton, pur contestando la richiesta, si è dichiarato disponibile a cedere alcuni ettari compresi quelli occupati dalla famiglia Curinanco. A distanza di anni, pare non si sia arrivati ancora ad un accordo.



Non va meglio con lo sfruttamento degli animali. Nell’ottobre 2004 l ’associazione animalista PETA ha lanciato una campagna nei confronti di Benetton, con l’intento di chiedere all’azienda di non comprare lana dall’Australia. In questo paese, infatti, viene adottata una pratica, chiamata mulesing. Attraverso questo tipo di tecnica oltre ad asportare la lana, si tagliano via pezzi di pelle dal corpo degli animali. Poi, quando le pecore non sono più utili per la lana, sono spedite in Medio Oriente per essere macellate. Perfino il viaggio avviene in pessime condizioni, su barche spesso scoperte. Alcune di esse, perché ammalate, non giungono neppure a destinazione e finiscono direttamente in mare. "I colori uniti di Benetton stanno diventando rosso sangue", ha detto Sean Gifford, direttore delle campagne europee PETA. L'azienda ha più volte spiegato di acquistare da grandi commercianti internazionali misture di lana di diversa provenienza, inclusa l’Argentina, dove, dicono, questo problema non esiste. Come a Genova.


Alla fine, ha ragione l’imprenditore Luciano Benetton, quando dice che


Nel declino, gli arroganti si fanno notare molto più degli altri, diventano ancora più spavaldi.
 

Crediti foto: Unsplash\Pixabay\Wikipedia

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