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  • Immagine del redattoreGloria Ferrari

Quelle lettere d'amore di Ungaretti per Bruna, di 50 anni più giovane

“La sua opera ha segnato una svolta radicalmente innovativa nel linguaggio poetico del secolo scorso. Il che significa identificarlo come una delle voci più esemplari della tradizione della modernità”.

Antonio Saccone, studioso di Ungaretti, mi introduce così la figura del poeta del ‘900 che il 1° giugno del 1970 lasciava questo mondo donandogli una preziosa eredità. Ci stava rendendo partecipi di un grosso cambiamento: realizzare una classicità del moderno, fondata sull’accordo tra sperimentale novità e canone, sulla reinvenzione del paradigma della classicità.

Cinquant'anni fa moriva il poeta di “mi illumino d’immenso”, la stessa eternità di cui ha intriso ogni singola parola dei suoi versi.

La scrittura per lui era necessaria, si confondeva con la vita. Con la stessa necessità scrisse quasi 400 lettere, destinate ad una donna conosciuta in tarda età.



Non c’era solo la guerra nella sua vita, non c’era solo il dolore. Durante la vecchiaia riscopre un sentimento tenero, a tratti leggero, nei confronti di Bruna Bianco. L’aveva incontrata a San Paolo di Brasile dove si era recato per delle conferenze e per visitare la tomba del figlio Antonietto, morto nel 1939, all’età di soli nove anni. Lei viveva in Brasile da almeno 10 anni, migrata dalle Langhe per cercare fortuna insieme alla famiglia. Lo scambio di lettere era iniziato poco dopo il loro incontro. Ungaretti le aveva scritto dalla motonave che lo riportava in Italia. Lei era felice e lusingata di ricevere attenzioni da un uomo come lui, che seppur più grande di lei di oltre 50 anni, l'aveva affascinata per la potenza espressiva che gli apparteneva. Dal settembre 1966 all’aprile del 1969 si scrissero spesso, riuscendo ad organizzare degli incontri per ben quattro volte. Due volte in Italia, le altre due in Brasile.



Si tratta dello stesso Ungaretti a cui, per l’impegno militare e la morte prematura del padre, sono state private molte carezze. Come ha confermato Sacconi, “La figura della madre ha un ruolo determinante nella vita e nelle opere di Ungaretti. In un libro, lasciato allo stadio di progetto, intitolato I miei antenati, figurava, tra gli altri, anche la madre, Maria Lunardini. Costretta a crescere da sola i figli, non aveva tempo per dedicarsi in carezze per i suoi figli".

Il legame tra lui e Bruna sembrava volersi riappropriare di tutta la gioventù mancata, della forte passione amorosa che contraddistingue due inesperti amanti che si apprestano a vivere. Ungaretti parlava di sé come un uomo che “ha la mente lucida e che continua a lavorare come se non avesse che 18 anni e che si muove come nulla fosse da un capo all’altro della Terra”. Per questo motivo la notevole differenza d’età tra loro non doveva aver compromesso la qualità e l’intensità del rapporto. Anzi.



Il suo è un amore tenero, che non vuole indottrinare, ma crescere insieme a quello di Bruna. Lo si evince anche dal modo in cui le si rivolge, “Mi stringo con le due mani il viso, e l’accarezzo e nel mio viso rinasce il Tuo nelle mie mani, la più cara cosa, la sola che amo su tutte, l’anima della mia anima, sei l’anima della mia anima, l’ultima forza che mi resta, l’ultima mia poesia, la vera, l’unica vera.” Per lei aveva trovato un modo diverso di esprimersi, un modo nuovo. Anche il suo modo di firmarsi sotto ad ogni lettera era cambiato. Il poeta aveva trovato una maniera intima di identificarsi, di dire “Sì, sono proprio io”, di farsi riconoscere. Ungà, così si firmava. L'amava forte, e lei lo desiderava almeno con la stessa intensità.


Bruna ha custodito segretamente le lettere per moltissimi anni, perché “era tutto il mio patrimonio e apparteneva solo a me. Dopo la sua morte dovevo ritornare alla vita normale: varie volte desiderai rileggere e poi bruciare tutto. Perché? Perché credevo che le persone non avrebbero capito la forza e la verità del nostro amore e questo atto di rifiutare a crederlo, dovuto alle radici profonde e orrende dei pregiudizi, mi offendeva profondamente”. Invece, dopo l’insistenza di alcune amiche, ha deciso di renderle pubbliche. Secondo lei, Ungaretti aveva voluto parlare a tutti attraverso quelle lettere ed era giusto, dunque, farle conoscere al mondo.



Quello del poeta è un dialogo immortale e continuo con il mondo, che, come una fenice, rinasce ogni volta proprio quando sembra in fin di vita. Me lo ha spiegato Antonio Saccone, dicendo che “I grandi classici ci sollecitano a riprospettare il nostro punto di vista sul nostro mondo e sul nostro tempo, ci restituiscono una mobilità prospettica, ci sottraggono alla prospettiva univoca a cui talora siamo inchiodati. Come ha scritto Calvino, quando li leggiamo o rileggiamo, quei testi esemplari si scrollano di dosso il pulviscolo di discorso che hanno attratto su di sé, riapparendo ogni volta inediti.

D’altronde, quello di Ungaretti è un messaggio d’amore senza tempo, puro e, per questo, immortale


Ti amo tanto, tanto tanto e ti bacio fino all’oblio di me e di tutto.

 

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