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  • Immagine del redattoreGloria Ferrari

Perché ai Nobel scientifici c'è poco spazio per le donne

Anziano, capelli bianchi, un po' ricurvo forse, e con un accenno di barba. È l’idea generica che più o meno tutti noi abbiamo (noi intesi come pubblico, come lavoratori, come studiosi, come cittadini etc…) su come appare o dovrebbe apparire uno scienziato, in generale, e in particolare quello che si appresta a ritirare il Premio Nobel per la fisica, ad esempio.

Se l’immaginario comune prevede prevalentemente un uomo, decisamente di razza bianca, non siamo poi così lontani dalla realtà dei fatti: il 97% dei vincitori del premio Nobel per la scienza è costituito da maschi.



In molti hanno cercato, nel tempo, di dargli una spiegazione logica. Un divario (espresso in percentuale) così netto non può essere dettato dal caso. Soprattutto quando i riconoscimenti di cui parliamo sono soprattutto il premio Nobel in fisica, chimica e medicina. Per farci un’idea più concreta, basta pensare che in 100 anni sono state premiate solo 20 donne su 607 assegnazioni totali.

Sicuramente in questi campi di studio di donne ce ne sono molte meno di quanto possano essercene altrove. Questo giustificherebbe il fenomeno solo in piccola parte. Non ci basta sapere questo, soprattutto perché non si tratta solo di numeri. Nel 2018 la canadese Donna Strickland vinceva il premio Nobel per la fisica. Un riconoscimento che, in generale, conferisce grande onorificenza a chi lo riceve (donna o uomo che sia). Tuttavia, quell’anno, gran parte degli articoli scritti dai media e che la riguardavano, tendevano a concentrarsi sul fatto che si trattasse della terza donna, nella storia, a ricevere quel tipo di premio. Prima di lei solo Marie Curie nel 1903 e Maria Goeppert-Mayer 60 anni dopo.



Secondo quanto riportato da Quartz, pare che Wikipedia avesse negato ad un utente, qualche mese prima, di creare una pagina che riguardasse la studiosa, ritenendola non abbastanza significativa da meritare una posto sull'enciclopedia virtuale. Prima del Nobel, le uniche informazioni reperibili online sulla Strickland riguardavano un lavoro fatto insieme ad un collega uomo (che aveva già la sua pagina personale dal 2005).

C’è voluta un’ora e mezza dalla consegna del Nobel prima che la scienziata avesse finalmente una pagina su Wikipedia tutta sua.


Spesso le persone prendono decisioni basate su presupposti, preferenze e stereotipi inconsci. Anche quando la loro concezione va nel verso opposto (è giusto che le donne abbiano i riconoscimenti che meritano), il torrente della consuetudine è troppo forte da tenere a bada (ma si sa che è agli uomini che poi bisogna dare i premi in carne ed ossa). È dimostrato da numerosi studi che le donne che decidono di avventurarsi in carriere di questo tipo affrontano ostacoli e barriere esplicite e implicite. Il primo fra tutti il pregiudizio. “Le donne non sono brave in matematica”, “Alle donne non piacciono le scienze”, e così via. A pensarla così non sono solo gli uomini, anche una buona percentuale di donne. È comprensibile sentirsi scoraggiate, è comprensibile pensare di non farcela, è comprensibile decidere di rinunciare. Attenzione, non è giusto, ma è comprensibile. Se ragazze e le donne evitano di avvicinarsi alle materie scientifiche non è a causa di incapacità o poca propensione. Il motivo più profondo è da ricercare nel contesto sociale in cui sono immerse sin dalla nascita secondo cui la scienza è riservata agli uomini.





In effetti, secondo i dati raccolti dall'American Institute of Physics, alle donne spettano circa il 20% delle lauree e il 18% dei dottorati di ricerca in fisica. Numeri in aumento se si pensa che nel 1975 alle donne spettava il 10% delle lauree e il 5% dei dottorati in fisica. Non possiamo tranquillizzarci solo perché 50 anni fa andava peggio.


Anche in quest’ambito ci tocca tenere conto della questione legata al divario retributivo di genere e della difficoltà a cui una ricercatrice, ad esempio, può andare incontro nel tentativo di conciliare vita privata e lavoro. Stare in laboratorio richiede tempo e costanza. Per questo, chiedere un congedo familiare per la nascita di un bambino potrebbe significare essere tagliata fuori dai giochi. Oppure, lavorare in ambienti dominati dagli uomini può lasciare le donne spesso isolate o escluse dagli eventi sociali, ad esempio. A questo si aggiunge il fatto che le donne in cerca di lavoro accademico hanno maggiori probabilità di essere viste e giudicate in base alle informazioni personali e all'aspetto fisico. Le loro lettere di raccomandazione hanno maggiori probabilità di sollevare dubbi (cos'ha fatto per arrivare fin qui?).



Tutti pregiudizi che, se sommati, possono negativamente influenzare la possibilità per una ricercatrice di pubblicare uno studio tutto suo, ad esempio. Si tratta del cosiddetto “Effetto Matilda”, secondo cui, come dice Focus, “si tende alla minimizzazione dei risultati scientifici conseguiti dalle donne, i cui studi vengono spesso attribuiti ai loro colleghi uomini, non a causa della scarsa qualità scientifica del loro lavoro, ma per motivi di genere”.

In effetti, dati alla mano, gli uomini si attribuiscono il 56% dei documenti in più rispetto alle donne. Una ricerca conseguita da una scienziata ha meno probabilità di essere citata da altri, mentre la sua idea han maggiori probabilità di essere attribuita agli uomini.


Un mix letale ed efficace, visto che tra il 1901 e il 2019, tra le 219 persone che hanno ricevuto il Premio Nobel per la medicina solo 12 erano donne. E così, anche negli articoli in cui si comunica che Emmanuelle Charpentier e Jennifer A. Doudna hanno vinto il Nobel per la chimica 2020, il giornalista sente il bisogno di specificare che si tratta di due donne. L’Ansa scrive: “Nobel per la Chimica alle due donne del taglia-incolla il Dna”.


Avremmo avuto la stessa tipologia di scrittura se si fosse trattato di due uomini?

 

Immagini: Unsplash

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