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  • Immagine del redattoreGloria Ferrari

Quelli come Zaki e Regeni sono vittime di uno Stato egoista

Altri 45 giorni in carcere per Patrick Zaki. “Una decisione assurda, atroce, arbitraria e crudele'', dice su Twitter Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, vicino alla causa dello studente e attivista egiziano dell'Università di Bologna, arrestato il 7 febbraio all’aeroporto del Cairo. Altri 45 che si aggiungono ai 158 giorni e 158 notti di prigionia per lui nella Sezione Scorpion del carcere di Tora dedicata agli oppositori del regime di Abdel Fattah al-Sisi. 158 giorni e 158 notti di agonia per chi spera in un finale diverso da quello toccato a Regeni.



Patrick è stato fermato dalla polizia con l’accusa, tra le altre, di propaganda sovversiva su Facebook, prima di essere inghiottito dal silenzio per 30 lunghissime ore di torture, scosse elettriche per tutto il corpo e interrogatori. Trattato come il peggiore dei criminali. Gli hanno pure chiesto di Giulio Regeni, domande che fanno paura quando si sa com’è andata a finire con lui.

Poi la decisione di sottoporlo a detenzione preventiva, con cinque diversi capi d’accusa in groppa, contenuti in un mandato di cattura emesso nel settembre 2019, quando era già in Italia: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo. Tradotto, rischio altissimo di condanna all’ergastolo che in Egitto significa scontare 25 anni di galera. Stando al mandato d’arresto, la polizia ha fermato Zaki per alcuni post scritti dal suo account personale su Facebook che risalgono a prima del 23 settembre. Ma, per quanto detto dai suoi avvocati a l’Ansa, “finora non li abbiamo visti e la Sicurezza non ce li mostrerà. Ma si tratta di un account fake, in quanto porta tre nomi, mentre il suo profilo ha solo nome e cognome”.

Fino ad ora nemmeno l’ombra di un regolare processo. Una situazione del genere può protrarsi fino a due anni in Egitto. Neppure la pandemia e la forte asma di Patrick sembrano aver “impietosito” i giudici. Per lui solo il permesso di scrivere alla famiglia e rassicurarli sulle sue condizioni. “Cari, sto bene e in buona salute, spero che anche voi siate al sicuro e stiate bene. Famiglia, amici, amici di lavoro e dell’università di Bologna, mi mancate tanto, più di quanto io possa esprimere in poche parole”.



Negli ultimi tempi in Egitto sono cresciute a dismisura le repressioni portate avanti dal governo egiziano di Abdel Fattah al-Sisi, contestato dall’opposizione. Come ha ribadito il legale, “Il problema di Patrick coincide con gli appelli a manifestare lanciati agli egiziani dall’imprenditore Mohamed Ali”, un ex appaltatore delle forze armate egiziane che dallo scorso settembre ha incitato la gente alla rivolta.

Ma non si tratta solo del carcere. Non si tratta solo dei 158 giorni. Non si tratta di starsene rinchiusi tra quattro mura. O almeno, non basta vederla così. Sarah Hijazi ha trascorso un periodo in un centro di detenzione per aver sventolato una bandiera arcobaleno durante un concerto. L’accusa? Incitamento alla devianza e alla dissolutezza sessuale. Poi, rilasciata su cauzione a seguito delle pressioni internazionali, il 14 giugno del 2020, a distanza di 3 anni, si è suicidata. “Chiunque sia diverso, chiunque non sia un maschio musulmano sunnita eterosessuale che supporta il regime al potere è considerato un intoccabile, è perseguitato, o è morto”, diceva.

Dopo il rilascio Sarah ha vissuto un periodo di forte depressioni e stress post-traumatico, da cui non è mai più riuscita a riprendersi neppure in Canada, dove aveva trovato asilo. Ci ha provato due volte ad ammazzarsi prima di riuscirci. Evidentemente per lei una vita destinata a rinnegare la libertà era una vita morta da tempo.


Non sappiamo ancora per quanto tempo Patrick resterà in cella e non sappiamo neppure se stia bene per davvero, come dice. Speriamo che le violenze siano cessate e così anche le minacce, che sia in forze e che il pensiero degli affetti gli infonda coraggio. Ma come può la sua vita tornare quella di un tempo in un regime in cui deve vivere come gli dicono di fare? Lo stesso regime che ha molti complici in tutta Europa, lo stesso in cui il conduttore tv egiziano Nashat Al Dihy ha raccontato dell’arresto dicendo che “Questo Patrick è un omosessuale che è andato a studiare per un master sull’omosessualità all’estero e che lavora per un’organizzazione di promozione dell’omosessualità”. Secondo lui Patrick avrebbe insultato l’Egitto intero con il suo comportamento. Seppur l’omosessualità in Egitto non risulti contro legge, nella realtà dei fatti si traduce con continue repressioni.



Secondo un documento redatto da Amnesty International centinaia di studenti, attivisti politici e manifestanti, spariscono nel nulla, senza lasciare traccia “nelle mani dello Stato”. Gli arresti sono spesso privi di fondamenta, gli interrogatori violenti, i detenuti lasciati soli. Con l’arrivo del COVID-19 la situazione è ulteriormente precipitata, le visite dei parenti in carcere sono state ridotte (e in molti casi impedite).


Era il 2013 quando l’Unione Europea decideva unanimemente di rivedere i suoi rapporti con l’Egitto, proprio in seguito alle continue violazioni delle libertà personali degli individui. Compresa l’Italia. Invece, con addosso i vestiti ancora sporchi del sangue di Regeni, la nostra nazione ha rafforzato il legame con l’Egitto. Un alleato troppo prezioso per andargli contro. “Patrick dava fastidio perché raccoglieva dati e informazioni sulle violazioni dei diritti umani in Egitto e le diffondeva all’esterno, proprio come faceva Giulio Regeni", spiega a Elle Paolo De Stefani, professore di Diritto internazionale dei Diritti Umani all’Università di Padova.

Il paradosso è questo. L’Egitto ha bisogno delle nostre navi, e subito, perché le tensioni con la Turchia in Libia sono a un punto decisivo. L’Italia deve sapere com’è andata con Giulio. Sarebbe un “io ti do questo se tu mi dai questo”. La differenza è che ci spetterebbe di diritto capire chi ha ammazzato Regeni e perché e non ottenere verità “grazie” alla vendita di armi e navi. Contribuendo, per di più, alla morte di centinaia di civili in Libia.



Carlo Verdelli ha scritto sul Corriere della Sera: “Stiamo facendo qualcosa per lui? Stiamo continuando a fare qualcosa per Giulio Regeni? Doppio zero. Una democrazia, la nostra, che lascia che due giovani di 28 anni, entrambi impegnati nello studio e nella pratica dei diritti civili, vengano inghiottiti da una ex repubblica socialista guidata da un presidente padrone e supinamente ne accetta l’insolenza, non brilla né per forza né per decenza”.

I quotidiani egiziani locali e le trasmissioni tv hanno ribadito più volte che si tratta di una vicenda interna al paese e che l’Italia non c’entra. Invece c’entra eccome. Non basta sperare che “questa volta andrà meglio”, come recita il murale fatto sui muri di Villa Ada a Roma, perché non andrà meglio per niente se la vita di un ragazzo di 28 anni vale meno della scoperta dell’Eni dell’enorme giacimento di gas Zohr.

Se la storia insegna, e insegna a non ripetere gli stessi errori, quando questi ricapitano identici è perché li si vuole far riaccadere proprio così.


Come ha scritto nell’800 il giornalista francese Jean-Baptiste Henri Lacordaire,


L'egoismo consiste nel fare della propria felicità la sofferenza di tutti
 

Crediti foto: Pixabay

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