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  • Immagine del redattoreGloria Ferrari

Cercasi commessa...con voglia di lavorare

Dopo la crisi ho provato a cercare lavoro. Ho preso sul personale alcuni annunci che mettevano in discussione il mio interesse di trovare una buona occupazione. “Cercasi X con voglia di lavorare”. Che vuol dire? Dunque, sotto esame è solo il candidato e si dà per scontato che l’azienda gli riservi la giusta paga, non gli chieda di lavorare il doppio di quanto previsto dal contratto (se c’è) e gli conceda solo 15 minuti di pausa pranzo. Succede anche questo. Mi sono ritrovata molto nelle parole di quell’uomo di Torre del Greco che qualche anno fa, su Facebook, denunciava una situazione di questo tipo. Un esercizio commerciale della sua città aveva affisso un cartello alla porta con su scritto: “Cercasi commessa… Con voglia di lavorare”. Incuriosito, fingendo di chiedere informazioni per la figlia, si era fatto spiegare per bene dalla proprietaria cosa intendesse esattamente per “voglia di lavorare”. Lei gli aveva risposto più o meno così: “Lavorare dal lunedì al sabato dalle 7.30 alle 13.30 e dalle 16 alle 21, la domenica mezza giornata. Le ferie tre giorni a ferragosto, la paga è per i primi tre mesi di 400 euro e se si supera il periodo di prova è di 550 e siccome non si pagano i contributi sulle nuove assunzioni il contratto è part time di 20 ore settimanali”.



Parafrasando quanto detto dalla signora (e da molti ministri in questi anni) se molti giovani sono disoccupati non devono che prendersela con loro stessi. Perché? Perché non riescono ad adattarsi al mercato, non hanno le qualifiche giuste o disdegnano retribuzioni diverse dalle quelle pretese.

Stefano Brigato possiede insieme al cognato un panificio. Qualche tempo fa ha denunciato al Gazzettino di aver cercato invano un apprendista panettiere. Ma come? Nonostante la proposta di un contratto regolare a tempo pieno, con paga di 1400 al mese? (Mi chiedo, perché dovremmo considerare la sua un’offerta generosa? Un contratto e la paga minima oraria dovrebbero essere alla base di ogni contratto di lavoro).

Secondo lui, i giovani preferiscono lo sballo ed il divertimento al duro lavoro, fatto di sacrifici. “Quando diciamo che si dovrà lavorare il sabato e la domenica, la maggior parte rinuncia”, ha aggiunto un collega.

Per quanto un’affermazione del genere possa avere un fondo di verità, generalizzare senza andare alle radici del problema non è mai la soluzione.



I giovani italiani spesso sono costretti ad andare via, nonostante di lavoro in Italia ce ne sia, come sostiene Stefano, ad esempio. Il motivo è che rimanere in Italia vuol dire spesso accettare lavori che non si vuole fare. È una colpa voler diventare ciò che è costato anni di studio? Un laureato in lettere non deve per forza accettare di fare il panettiere solo perché si fa fatica a trovare un posto fisso in cattedra. “Solo gli over 40 possono dire la parola definitiva su come il paese si regola e si gestisce”. dice a Valigia Blu Eleonora Voltolina, fondatrice del sito La Repubblica degli Stagisti.

L’errore è pensare che la medaglia abbia solo un lato da mostrare. Se molti credono che i ragazzi non abbiano voglia di lavorare, dall’altra la maggior parte delle nostre imprese non è pronta a sfruttare l’offerta di lavoro giovanile. Non potrebbe essere diversamente visto che in Italia le scuole (alla base della formazione dei ragazzi, gli stessi definiti “bamboccioni” dall’ex ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa) non sono supportate in maniera adeguata dallo Stato, non ricevono i giusti finanziamenti e sembrano realtà totalmente separate dal mondo del lavoro. Non dovrebbe essere così.



Per molti finire l’università significa ritrovarsi al punto di partenza. Il mondo del lavoro e quello dell’istruzione non si parlano affatto e quando lo fanno, usano un linguaggio totalmente diverso.

Per i commercianti come Brigato è assurdo pensare di non voler lavorare la domenica, ad esempio, perché se vuoi portare il pane a tavola devi essere disposto a farlo. È assurdo credere di essere nato per fare qualcosa, il giornalista, il maestro di musica, perché non conta chi sei, conta quanto sei in grado di produrre. E se per 10 anni ti ammazzi di studio perché nel tuo ambito vuoi proprio farcela, il ministro ti definisce un bamboccione, perché le tasche piene di sogni non fanno rumore come quelle piene di soldi.


Un’indagine realizzata nel 2017 dal Censis per conto dell’Ebitemp ha rivelato che il 26,9% dei giovani italiani attualmente occupati ritiene che il lavoro svolto non abbia alcun tipo di connessione con il proprio percorso di studi o di formazione. Un altro 23% ritiene che abbia a che fare in maniera marginale. Dunque, in sintesi, la metà degli intervistati si accontenta (spesso per necessità) di fare un lavoro che c’entra ben poco con il proprio titolo di studio. L’importante è che non ci siano bamboccioni in vista, insomma.



Perché l’Italia è così, perché va da sempre così ed è così che deve continuare ad andare, quando a dettare le leggi sono “i grandi”. Perché non è un paese per giovani, e non lo è soprattutto quando sembra così scontato che chi comincia a lavorare, in qualsiasi ambito, debba essere pronto a sopportare (giustamente direbbero alcuni) condizioni misere, paga bassa (a volte inesistente perché “stai imparando”) e sgarbi di qualsiasi tipo perché sei giovane e qui giovane vuol dire che sei uno scapestrato e che se non c’hai voglia di fare il pane perché non ti piace allora non c’hai voglia di lavorare.

Come diceva Mark Twain,


Il Lavoro consiste in qualsiasi cosa una persona sia costretta a fare
 

Crediti foto: Pixabay


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