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  • Immagine del redattoreGloria Ferrari

Perché l'istruzione in Italia vale meno di zero

“Avevamo sete di educazione: il nostro futuro era proprio lì, in quella classe. Stavamo seduti a leggere e ad imparare insieme. Amavamo indossare uniformi scolastiche e ci sedevamo, con i grandi sogni nei nostri occhi. Volevamo rendere orgogliosi i nostri genitori e provare che potevamo eccellere nei nostri studi e raggiungere cose che alcune persone pensano possono fare solo i ragazzi”. Malala Yousafzai ha pronunciato queste parole durante la cerimonia organizzata per la consegna del premio Nobel per la pace, nel 2014.

Malala non è una politica, non è un genitore, non è un’insegnante. È una studentessa di soli 18 anni (all’epoca) che spende centinaia di parole per sottolineare l’importanza di garantire a tutti il diritto allo studio, il diritto di recarsi a scuola fisicamente, per davvero. In Italia, invece, nonostante la pandemia abbia dato modo di spostare i riflettori su un vastissimo repertorio tematico (come sarà la tecnologia del futuro? Gli ospedali? Lo smartworking aumenterà il rischio di stress?) alcuni settori sono rimasti comunque in ombra. È il caso dell’istruzione, su cui si è detto poco e male, in maniera confusionaria, a tratti contraddittoria.



Anzi, per parlare se n’è parlato, almeno in un paio di momenti. Il primo, il 27 aprile 2020 quando a Milano, nonostante fossero ancora in vigore divieti inerenti al virus, in Piazza Duomo due docenti precari si sono dati appuntamento per protestare in merito alle assunzioni. Immediato l’intervento delle forze dell’ordine. Il secondo risale ai primi di giugno, quando la Azzolina e Salvini battibeccavano su quante “s” dovessero esserci nella parola “plexiglass”.

Un elemento che all’inizio sembrava imprescindibile (doveva separare i commensali al tavolo, i banchi di scuola) per un Governo che sin da subito ha mostrato l’intento di voler dividere, senza provare a pensare a modi alternativi per essere “lontani ma vicini”. La didattica online è sembrata a tutti, compresa Ministra e Presidente del Consiglio l’unica scelta possibile. È comprensibile, almeno fino a quando l’entusiasmo non è volato troppo in alto (per l’Azzolina l’insegnamento telematico è un gran successo).



Non sono così d’accordo gli insegnanti, protagonisti, insieme ai ragazzi, di un calvario informatico, fatto di connessioni che vanno e vengono. Hanno scritto lettere ai giornali, si sono sfogati con decine di interviste per provare a spiegare, in tutti i modi, che a lungo andare un processo del genere non può far altro che incrementare le disuguaglianze (banalmente basti pensare a chi ha un computer e chi no) e impoverire l’insegnamento stesso. Non sappiamo (ancora) se la scuola del futuro continuerà su Zoom, ma una certezza l’abbiamo. Ora come ora non è pronto lo Stato, non sono pronte le famiglie e non sono pronti studenti e docenti. “Dirigenti e insegnanti si sono dovuti attrezzare, come pure le famiglie, per apprendere online, per imparare a distanza, per insegnare a distanza. Nelle varie chat di istituto (eh sì, perché ogni scuola ha un gruppo Whatsapp da cui filtrano comunicazioni che dovrebbero avere tutt’altro tono) i docenti linkano notizie, bollettini, catene, meme divertenti, messaggi deliranti per quanto riguarda notizie e ordinanze, anche fake, ma ormai ci siamo stufati pure di avvertire che si tratta di bufale”. È così che si sfoga una docente, con un lungo messaggio destinato a Fanpage. Molti, nella sua esperienza, sono stati i colleghi che hanno sovraccaricato i ragazzi di schede, di compiti, che hanno continuato ad andare avanti con il programma come se nulla fosse, come se fossero in classe. Finisce che i genitori prendono il posto dei docenti. “Mi dispiace per tutti quei colleghi alle soglie della pensione con poca pratica nelle nuove tecnologie ma che hanno lavorato ugualmente, facendosi aiutare dai membri delle loro famiglie. Mi dispiace per me e la mia famiglia su cui non intendo più riversare questo stress lavorativo, né aggravi economici. Mi dispiace essere stati abbandonati”.



Tuttavia, il periodo in cui siamo immersi poteva (e doveva) rivelarsi una buona occasione per rivedere l’intero apparato scolastico, mettendolo al centro dell’attenzione dei “piani alti”. Doveva andare così soprattutto perché quegli stessi politici, pochi mesi prima, vedevano nei giovani “il nostro futuro” e nella scuola la strada per “formare cittadini responsabili”.

Invece siamo finiti che oltre il 60% dei giovani italiani tra i 18 e i 34 anni vede il proprio futuro già negativamente segnato, specialmente le donne: il 67% di loro ritiene che i propri piani andranno in fumo. Le cose non andavano bene neppure prima. Per questo è sbagliato sperare di tornare a come quando il virus non c’era. Se"mantenere le scuole chiuse ci ha permesso di salvare delle vite rallentando la diffusione del contagio", come ha detto la Ministra, dall’altra parte migliaia di studenti in età adolescenziale (e non) hanno perso molte occasioni per socializzare, rammaricarsi per un rimprovero dell’insegnante, o sorridere per un commento di un compagno di classe. La scuola è anche questo, soprattutto questo.



Come ci siamo arrivati? Come siamo arrivati a scordarci dell’Istruzione? Per Peppino Ortoleva, storico e studioso di mezzi di comunicazione, docente all'Università di Torino, intervistato dal Secolo XIX, le ragioni sono da ricercare negli anni passati. “Dopo un periodo, negli anni Novanta, in cui è stata fatta una politica dissennata e demagogica di moltiplicazione degli atenei, ora le università (ma anche in parte la stessa scuola media) sono presentate nell’insieme come uno spreco. Salvo che per poche categorie come medici o ingegneri nelle quali vige il numero chiuso, per il resto la retorica dominante è quella delle “fabbriche di disoccupati”. Se tanto i giovani restano disoccupati o sotto-occupati, perché spendere in una formazione inutile?”.

Che l’Italia si interessi poco dell’educazione dei suoi cittadini non è solo argomento da brontoloni e complottisti. Da un rapporto del 2018, redatto dalla Commissione Europea, è emerso che l'Italia spende meno degli altri paesi dell'UE per i suoi studenti (circa il 28% in meno, ottenendo, quindi, pessimi risultati). Di conseguenza, il nostro paese corre il rischio di perdere un milione di studenti nei prossimi dieci anni. Secondo Eurostat, a rischio sarebbero da 9 a 8 milioni in totale di studenti. La spesa bassa si riversa anche nei compensi dei docenti che, pur essendo al culmine della propria carriera, ricevono comunque uno stipendio più basso del 20% rispetto ai colleghi europei che si trovano allo stesso livello.

“Lo studio è la spinta, lo strumento per l’apertura, l’interesse e il rispetto verso culture diverse, verso opinioni ed esperienze di altri”, diceva il Presidente Mattarella. Allora perché ci sembra tanto che nessuno consideri la scuola una tappa obbligatoria nella crescita di un individuo?



Secondo Ortoleva c’entra la politica, eccome: “Da parte della destra, tutto sommato, si spiega. Silvio Berlusconi e i suoi alleati hanno sempre considerato gli insegnanti la base di massa della sinistra; e hanno introdotto nella politica italiana un atteggiamento anti-intellettuale abbastanza nuovo in Europa, mentre ha una sua tradizione nella destra americana”. Eppure, con la sinistra a capo del governo, le cose non sono andate diversamente (a patto che accettiamo di distinguere ancora così nettamente la destra dalla sinistra). “Prima di tutto, proprio perché per molti anni la sinistra ha considerato gli insegnanti come una base sicura, il cui consenso non sarebbe stato ridotto dai tagli sulla spesa”. Secondo lui, l’Istruzione è uno dei posti preferiti dai politici per andare a pescare denaro quando altrove non ce n’è perché “è meglio investire là dove si compra consenso”.


Insomma, ci si ritrova (anzi, ci siamo già) in un circolo vizioso in cui: nessuno investe per l’istruzione dei giovani, gli stessi giovani vengono definiti “il futuro del paese” e contemporaneamente “scansafatiche che non vogliono lavorare”, gli stessi giovani si scoraggiano perché non vedono futuro e finiscono per fare niente, perché è l’unica cosa che rimane da fare.


Forse la ragione profonda dell’agire politico italiano è da ricercare in quello che scrisse il rivoluzionario José Martì:

Un popolo istruito sarà sempre forte e libero

 

Crediti foto: Unsplash

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