Il cambiamento climatico si sta insinuando nella nostra psiche
- Gloria Ferrari
- 19 mag 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 20 mag 2020
“Anche se siete la persona più priva di emozioni al mondo, non esiste un tappeto tanto grande sotto cui nascondere tutto questo”. È la frase con cui Britt Wray, divulgatrice in materia di cambiamenti climatici, ha concluso un suo discorso pubblico nel 2019. Un anno dopo, con “2°C: Beyond the Limit”, una serie di reportage sul surriscaldamento globale, il Washington Post vince il Pulitzer 2020. Per la prima volta un’inchiesta sulla crisi climatica si aggiudica il riconoscimento più ambito nel mondo giornalistico.
Ci stiamo accorgendo (per davvero) che le cose non vanno?
Gli studi sull'impatto psicologico che i cambiamenti climatici hanno sulle popolazioni sono cominciati già da molti anni. Nel 2017 l’American Psychological Association (APA) gli ha dato il nome di eco-ansia, definendola come “una paura cronica della rovina ambientale”. Quando affibbiamo ad un fenomeno un nome, lo rendiamo più concreto, vicino, reale.

Non si tratta più solo di comportarsi da buon cittadino, fare la raccolta differenziata, sciacquare la lattina del tonno prima di buttarla e scegliere l’hummus bio dal negozio più sostenibile che ci sia in città. Il mondo si sta letteralmente sciogliendo e noi abbiamo paura di annegarci dentro. Questo comporta l’accumulo di un enorme quantitativo di stress. Un sondaggio italiano pubblicato l’8 Ottobre da Swg (istituto di ricerca triestino) mette in chiaro che ora, quando ci parlano di clima, non pensiamo soltanto agli orsi spelacchiati lontani, su una lastra di ghiaccio. Il 64% dei ragazzi intervistati ha dichiarato di avere una paura concreta che una catastrofe bussi alla porta da un momento all’altro. Spesso questa situazione di disagio psicologico si manifesta anche fisicamente, soprattutto in individui dai “10 ai 30 anni, che rischiano di più proprio perché questi cambiamenti vanno a colpire persone ancora non perfettamente mature”, ha detto lo psichiatra Paolo Girardi.

Questa sensazione è spesso ampliata dal senso di “inutilità” che ci sovrasta. Non è così raro chiedersi cosa possiamo fare noi di concreto, cosa possiamo fare nel nostro piccolo, a cosa possiamo servire. Allo stesso modo, capita con altrettanta frequenza di convincersi che tutto dipende dall’alto e che non possiamo fare altro che subire inermi le decisioni di chi si suddivide il potere. Una possibile soluzione è quella suggerita da Dean McKay, professore di psicologia della Fordham University a New York. Secondo le sue ricerche potremmo dotarci di anxiety control ricongiungendoci con la natura perché “una forma di impegno in qualche tipo di attivismo potrebbe ridurre i livelli di eco-ansia”.
Tuttavia, rimane pur sempre il fatto che è necessario rivedere, alla luce di questi repentini cambiamenti, il rapporto dell’uomo con la natura. Va bene provare a ritornare in sintonia con essa, va bene battersi per sensibilizzare il prossimo ma va bene accettare anche che sta cambiando lei e stiamo cambiando noi. In seguito alle frequenti catastrofi (alluvioni, uragani, incendi) stiamo prendendo consapevolezza che da un momento all’altro le cose a cui teniamo di più potrebbero sparire o mutare drasticamente. Parliamo di case, villaggi distrutti o parzialmente rasi al suolo, città costrette ad adattarsi ad un livello delle acque in crescita. Gli studiosi la chiamano solastalgia: si tratta di un sentimento nostalgico che si prova per un luogo nonostante vi si continui ad abitarlo.

Una diretta manifestazione di questo sentimento di ansia e preoccupazione è data dalla nascita del movimento Birthstrike, tradotto letteralmente come “sciopero delle nascite”. Si tratta di donne e uomini che decidono volontariamente di non mettere al mondo dei figli per far fronte al collasso ambientale. Blythe Pepino, fondatrice del movimento, ha raccontato che quando ha preso consapevolezza della sua decisione si è accorta che molte altre persone, attorno a lei, la pensavano allo stesso modo. Dovremmo davvero mettere al mondo un bambino che nella migliore delle ipotesi vivrà almeno (e dico almeno) una catastrofe durante la sua vita? Nel concreto, come elenca la Bryte, lo scenario che gli si porrà davanti è questo:
I vent'anni più caldi della storia si sono verificati negli ultimi 22 anni. L'ONU pensa che due terzi della popolazione globale potrebbero soffrire per carenza d'acqua tra soli sei anni. La Banca Mondiale prevede che per il 2050 ci saranno 140 milioni di rifugiati climatici in Africa subsahariana, America latina e Asia meridionale. E altre stime portano quel numero a più di un miliardo. Migrazioni di massa e scarsità di risorse aumentano il rischio di violenze, guerre e instabilità politica. L'ONU ha appena dichiarato che stiamo spingendo un milione di specie verso l'estinzione, molte nel giro di decenni, e le emissioni continuano a crescere, anche dopo l'Accordo di Parigi.
A questi elementi, si aggiungono i dati. In media, avere un figlio in meno in una nazione industrializzata può far risparmiare 59 tonnellate di anidride carbonica all'anno. Mentre, in confronto, vivere senza macchina fa risparmiare quasi 2,5 tonnellate, evitare un volo transatlantico, e si parla di un solo volo, fa risparmiare circa 1,5 tonnellate e seguire una dieta vegetariana può far risparmiare quasi una tonnellata all'anno. E considerate che un bambino bengalese aggiunge solo 56 tonnellate di CO2 all'eredità dei suoi genitori nel corso della loro vita, mentre un bambino americano ne aggiunge 9441.

Molti dei membri del Birthstrike vogliono avere figli. L’idea di fondo che li fa arrabbiare (oltre all’inadeguatezza della politica di fronte ai cambiamenti climatici) è l’impossibilità di scegliere. Scegliere se avere figli o meno perché li vogliono o meno (come genitori). "Non speriamo che tutti smetteranno di avere figli e questo risolverà la crisi, sarebbe completamente stupido. Questa non è una soluzione. Piuttosto, è un grande segnale che dice alle persone al potere, ecco come è diventata ... disfunzionale la nostra società!”. Anche se sull’impatto inquinante che un bambino possa avere sul pianeta discutono ancora studiosi ed economisti, una cosa rimane certa:
“Ci sono giorni in cui non riesco letteralmente a lavorare. Leggo un articolo e mi spengo per il resto della giornata. Non ci meritiamo questo pianeta. Ci sono (molti) giorni in cui penso che si starebbe molto meglio senza di noi."
Crediti foto: Pixabay\Brenna Quinlan
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