top of page
  • Immagine del redattoreGloria Ferrari

Greenwashing, ovvero l’arte di ripulirsi la coscienza

Aggiornamento: 26 giu 2020


“Più persone convinciamo a riciclare, più plastica verrà tolta dall’ambiente. Proprio come fa Ferrarelle, l’unica che grazie al suo impianto di riciclo toglie ogni anno 20.000 tonnellate di plastica dall’ambiente. Molte di più di quante ne utilizza per produrre bottiglie in plastica riciclata. Ferrarelle, un miracolo per la natura”. È il copione dello spot Ferrarelle, la famosa marca italiana di acqua che opera anche su scala internazionale, con una distribuzione in oltre 40 Paesi.

È la stessa azienda condannata nel 2012 dall’Antitrust (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) a pagare 30mila euro per una campagna pubblicitaria ingannevole, in cui uno dei prodotti del marchio veniva definito a impatto zero anche se non lo era.

Ferrarelle non è l’unica artefice di greenwashing. Quando utilizziamo questo termine, intendiamo il fornire informazioni da parte di un’azienda che non corrispondono alla realtà dei fatti. L'intento è dimostrare che i propri prodotti siano più rispettosi dell'ambiente rispetto ad altri. In poche parole, ci fanno credere di lavorare sodo per inquinare il meno possibile e poi accade il contrario.



Delle volte le dichiarazioni fatte dalle aziende non sono interamente false. O meglio, sono vere a metà. Ad esempio, non si può dire che le etichette con su scritto “fatto con ingredienti di origine naturale“ stiano mentendo. Dall'altra parte, però, è pur vero che stanno manipolando la realtà. Analizzando la frase, infatti, potremmo dire che gli ingredienti scelti, seppur di origine naturale, non tengono conto di eventuali processi di lavorazione successivi, che possono risultare poi inquinanti.

In genere, comunque, si opera in questo modo: mantenendo un fondo di verità, si tende ad esagerare, dichiarare molta più attenzione all’ambiente di quanta effettivamente ce ne sia. Lo scopo è di convincere l’acquirente di stare facendo la scelta giusta (in ogni caso, infatti, sta comprando un prodotto green, seppur allo 0,1%). I marchi, cercando di sfruttare questa scia e tentando di primeggiare sui concorrenti, spesso inventano di essere quello che non sono.



"La responsabilità sociale e ambientale non dovrebbe essere uno sport competitivo", dice Daniel Korschun, professore di marketing presso la Drexel University, esperto in greenwashing. "Non tutte le aziende possono avere il minimo impatto ambientale o donare di più in beneficenza", ribadisce al New York Times.

Una strategia vincente per le aziende è incrementare comunicati stampa e spot pubblicitari con l’intento di sottolineare gli sforzi compiuti per salvaguardare il pianeta. Questo fenomeno si è intensificato a partire dagli anni ’90, quando nel consumatore ha iniziato a svilupparsi una certa coscienza sostenibile. Di conseguenza, le aziende si sono evolute seguendo i ritmi dei suoi cambiamenti. In particolare, alcuni sondaggi fatti in quegli anni hanno evidenziato quanto la sostenibilità di un’impresa possa direzionare gli acquisti e influire sulle scelte del compratore. Ma non si tratta solo di questo. Convincere l’acquirente di stare per comprare un prodotto a impatto quasi zero (vero o falso che sia) “alleggerisce” la sua coscienza. Un individuo convinto di non nuocere all’ambiente acquistando acqua Ferrarelle sarà più predisposto a ricomprarla.



È anche grazie alla maggiore attenzione per il sostenibile che il greenwashing è venuto allo scoperto. Molti meccanismi nascosti sono saltati fuori e continueranno a farlo dal momento che le tendenze green sono in continuo aumento. Ad esempio, un sondaggio portato a termine da Nielsen del 2015 ha mostrato che il 66% dei consumatori globali è disposto a pagare di più per prodotti ecosostenibili. La cifra aumenta fra i millennials (i nati fra gli anni ’80 e ‘90), con una percentuale che schizza al 72%.

Negli ultimi tempi la partecipazione del consumatore è diventata ancora più attiva con l’utilizzo dei social. Come non ricordare, a proposito, lo storico post che Volkswagen pubblicò agli inizi del 2013? Il colosso automobilistico tedesco, un paio di giorni dopo la fine dell’anno, scriveva sulla sua pagina Facebook ufficiale: “Cosa vorreste che facessimo per voi, quest’anno?”. Una domanda apparentemente innocua e che anzi mostrava una certa apertura nei confronti degli acquirenti (soprattutto per stimolare le vendite). Non serve un esperto per capire che Volkswagen stava cercando di mostrarsi vicina alle tematiche della gente e pronta a soddisfare le sue richieste. Tutto questo accadeva a pochi mesi di distanza dall’accusa, da parte di Greenpeace, di fare ostruzionismo nei confronti di diverse leggi comunitarie sul clima e sulla regolamentazione delle emissioni di Co2. Quella domanda, però, poteva far sperare (o illudere) in un cambiamento. Insomma, una sorta di redenzione da parte dell'azienda.



Nel 2019, H&M ha lanciato la sua linea di abbigliamento green che si chiama “Conscious”. Sul sito si può leggere che i capi “Sono realizzati con materiali derivati almeno al 50% da fonti sostenibili, come il cotone organico e il poliestere riciclato, ma molti prodotti Conscious ne contengono molto di più. L'unica eccezione è il cotone riciclato che può essere presente fino al 20% in un prodotto. Se ne includessimo una quantità maggiore, i capi non avrebbero la stessa qualità”. Partendo dal presupposto che Conscious è solo una linea di tutta la produzione (il resto dei capi viene prodotto allo stesso modo di sempre) non basta affermare di utilizzare cotone "organico" e poliestere riciclato. Si rischia di abbagliare il consumatore, ingannandolo senza dargli troppe spiegazioni. Alcuni, infatti, come Marco Ricchetti, docente di Economia della moda allo Ied di Milano, la pensano in maniera diversa. Come ha raccontato a Linkiesta, “Il cotone bio ha una performance ambientale tendenzialmente peggiore rispetto al cotone convenzionale (e a maggior ragione rispetto al poliestere) per quanto riguarda l’uso del terreno e i consumi di acqua. Inoltre, attorno al tavolo delle discussioni gravita la resa delle coltivazioni biologiche (kg di raccolto per ettaro coltivato)”. Proprio per questo motivo, un buon metodo, collaudato, di greenwashing è quello di evidenziare un piccolo atto di tutela ambientale (la linea Conscious), promuovendolo in ogni modo. La speranza è che l'acquirente, concentrandosi su questo, dimentichi la globalità dell’impatto ambientale di quell’azienda stessa.



Per tornare al caso Ferrarelle, In Italia ogni anno si consumano 8 miliardi di bottiglie da 1,5 litri di acqua minerale, che producono 280 mila tonnellate di rifiuti in plastica: siamo uno dei primi tre Paesi al mondo per consumo di acqua in bottiglia, con il Messico e l'Arabia Saudita. Tuttavia, la nostra qualità dell’acqua di rubinetto è tra le migliori d’Europa. Ma il 62% delle famiglie preferisce l’acqua in bottiglia. Negli oceani ogni anno finiscono circa 8 tonnellate di plastica, che contribuisce all’80% dell’inquinamento totale dei mari, soprattutto perché per degradarsi una bottiglia di plastica impiega mediamente 450 anni. L’Unione Europea ha approvato un programma per ridurre la plastica in circolazione. Diminuire le bottiglie che usiamo e incentivare il consumo dell’acqua del rubinetto (magari stanziando dei fondi per apportare migliorie alle tubature, ad esempio) potrebbe rivelarsi essenziale per la riuscita dei piani.

Non è “Più persone convinciamo a riciclare, più plastica verrà tolta dall’ambiente”, come dice Ferrarelle. Piuttosto, “Più persone convinciamo a non usare la plastica, meno ce ne sarà nell’ambiente”.


Di fatto, come ha detto lo scrittore Sam Keen,

Se tagliassimo la popolazione mondiale del 90%, non resterebbero abbastanza persone per fare danni all'ecologia
 

Crediti foto: Unsplash

15 visualizzazioni0 commenti

Post recenti

Mostra tutti
bottom of page